Franco Pedrina

Claudia Mandelli


Tormenti ed estasi nella materia pittorica

Alberi, rocce, nature morte, interni, girasoli, angurie, paesaggi non sono che l’occasione, il motivo per dire altro rispetto a ciò che appare.
Da una trama organica, in sé coerente, di primaria origine naturalistica, tendente ad espandersi nascono via via e vanno come solidificandosi forme incarnate in un colore, materico e spesso, fino a lasciar affiorare temi ricorrenti più volte anche a distanza perché entrati a far parte del quotidiano e del vissuto personale.
Il contatto con il ritmo frenetico e alienante della città convince l’artista, originario della campagna veneta, della profonda autenticità dei valori scoperti a contatto con la natura, coltivati nella contemplazione della solitudine mentale.
“Solitudine attiva” l’aveva chiamata Renato Birilli, “altro non è che amore e questo è sempre stato”. Amore per la vita, nel suo espandersi rigogliosa ma subito minacciata dall’imminente corrompersi, venir meno, come nei frutti maturi delle angurie; per la bellezza da scoprire là dove meno te lo aspetti, negli alberi robusti sopravvissuti a tutte le tempeste; per la continuità dell’esistenza, nelle rocce da millenni resistenti al tempo che e consuma; per la morte infine, indissolubile dalla vita.

Dall’idea all’oggetto, l’arte dei grandi sistemi aveva rappresentato il mondo secondo ideali politico - religiosi - filosofici; con la crisi del Cinquecento il percorso si inverte dall’oggetto all’idea fino alla messa in secondo piano e perdita del primo. Tra questi due poli si tende anche la ricerca umana ed artistica di Franco Pedrina: esplorare la natura che ci circonda con occhio vigile, attento, fino a farle violenza, a sconvolgerla, investendola di una percezione e di una storia più ricche che superano il dato sensibile. Delle antiche icone, immagini appunto ideali e venerate perché ritenute al massimo grado rappresentative dell’ideale, del mistero da esse in vario modo significato, si ritrova qui la ricchezza di senso. Al di là dell’apparente cataclisma abbattutosi su soggetti “innocenti”, boschi, interni, massi, girasoli, tanto da segnarli,  penetrarli, sconvolgerli, la verità dell’artista è tutt’uno con le “cose” così modificate nella loro sostanza, così “altre” a volte, perché interpretate da una acuta sensibilità si nasconde e si ostende ad un tempo. Temi più volte ricorrenti si dipanano n un racconto complesso e articolato nella pittura, fino a rilevare nella materia tormenti ed estasi. Il brano, lo “spaccato” naturalistico vive come frammento, identificabile soprattutto per via del colore. Un contatto quasi fisico a volte reso tattile nell’impasto denso della materia, nelle saturazioni del verde, dell’azzurro e del giallo, del viola, mai disgiunto dalla volontà di andare oltre la superficie, raschiandone via via il pigmento, nel tentativo di alludere a ciò che, dai simulacri di una realtà fin troppo ovvia, ci interroga.

Tra questo andirivieni, tra palesarsi e nascondersi di immagini dense di memoria sgranate dalla luce, si identifica e prende corpo il cammino stesso dell’artista nello spessore di uno spazio fluido generato dagli elementi pittorici. La forza delle superfici compatte, spesse che si disegnano in armonie certe si muta, per effetto dell’incalzare del tempo che passa, in poesia nel frammento, nella ricerca estenuata di una pennellata di un tono ultimo, testimonianza intensa, meditazione sul tempo e sulla vita.
Se ci lasciamo sedurre da questo canto silenzioso, anche per noi si fa accessibile una possibilità di apertura, di scoperta, in un viaggio avventuroso attraverso nuovi mondi, verso nuovi lidi.

(Presentazione della mostra, Brambati Arte, Vaprio d’Adda, Novembre Dicembre 2005)

 

 

La pittura di Franco Pedrina è da apprezzare e da amare perché traduce sensibilmente per noi un pensiero e delle esperienze che appartengono all’autore, ma diventano di volta in volta anche di tutti noi: è l’eterno dramma dell’uomo che si interroga sulla propria storia, si esalta e si dispera. Non in modo declamatorio però, ma con estrema verità e dignità nudo davanti alla propria coscienza, senza preconcetti interrogando solo il proprio essere sempre vigile. Ecco che allora i temi ricorrenti dei ceppi, delle vigne, dei boschi e degli interni, si animano quali rivelazioni di momenti vissuti, di significati interni e interiori, penetranti anche il nostro profondo attraverso l’incontro con la superficie pittorica. Pedrina crede ancora nella pittura, nel valore del colore, - per cui ci pare riconducibile a correnti tra l’informale e l’espressionismo, a Sutherland e Morlotti, anche se di esito finale completamente al di fuori di ogni schema e regola codificata e non strettamente inerente l pittore e la sua opera.
Si tratta di una pittura “magra” stesa per tocchi guizzanti che a volte si raddensa in grumi emergenti e variegati dove i colori si esaltano a vicenda, modulandosi i una ricca gamma do tonalità. Questo affiorare e reimmergersi delle cose coinvolge anche la preparazione della tela stesa: un processo incessante, quasi una lenta scarnificazione, elaborato nel corso di lunghe pause di ripensamento trasfigura i dati della materia nell’immagine di un’esistenza: il tempo, la natura, la giovinezza, la vecchiaia, il disfacimento, la morte, si rendono visibili e percepibili a chi contempli l’intrecciarsi, il distendersi sciogliersi, intensificarsi continuo del colore in ritmi sempre meditati perché legati indissolubilmente a una concezione dell’esistenza come un tutt’uno dall’inizio alla fine, dove ciò che è vissuto e appartiene al passato, proprio perciò continua ad avere valore nel presente e in qualche modo condiziona il futuro. Non l’oggetto o il tema in sé diventa importante quindi, il modularsi della pittura che rivela questi valori eterni. La “povertà” delle cose si trasfigura in un colore brillante, in una comunicazione poetica e tragica, ma sempre coinvolgente, quasi cogente per forza espressiva. Anzi il motivo diventa quasi un pretesto per la manifestazione di un sentire “mitico” - di valori spirituali e significati esistenziali -, che si stratifica sulla tela in un a pennellata che sconvolge la materia pittorica orchestrandola in ritmi convulsi o distesi ma sempre veri, stravolgendo i dati di natura.

(in «Il giornale di Bergamo Oggi», giugno 1991)

 

 

 

 


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